Sono terre anfibie quelle che mi hanno dato i natali, modellate dall'acqua e dal tempo, dove i fiumi non sono solo corsi d'acqua, ma cicatrici d'argento che raccontano storie di uomini e di ostinazione.
Il Polesine, una gentile stretta nell'abbraccio di Adige e Po, i due giganti liquidi che per secoli ne hanno disegnato i confini, inondato i campi e nutrito le speranze.
In questo paesaggio liquido, a governare il tempo e la terra per secoli non furono solo i fiumi, ma un'istituzione di pietra e di fede: l'Abbazia della Vangadizza. Fondato intorno alla metà del X secolo per volontà del Marchese di Mantova, questo imponente complesso benedettino, oggi un gigante silenzioso nel cuore di Badia Polesine, divenne in breve un faro non solo spirituale, ma un motore pulsante di civiltà e progresso agricolo.
I suoi monaci, fedeli al motto "Ora et Labora", non si limitavano a pregare tra le mura dei chiostri; erano ingegneri idraulici, agronomi ante litteram, i primi a leggere il fragile equilibrio di questa terra e a imporre un ordine al caos delle acque con opere di bonifica che strappavano ettari di futuro alla palude.
Il loro "labora" era un atto di creazione, un dialogo costante con un ambiente difficile ma generoso, un patto di terra che perdurò fino alla soppressione napoleonica del 1810.
È tra le pagine di antichi testi - nell’anno domini 1843 - che compaiono nitidi nomi che oggi suonano come arcane melodie: turchetta, benedina, corbina e, appunto, la mattarella, un'uva a bacca bianca che trovò la sua culla nei possedimenti della Vangadizza, più precisamente nei territori degli odierni Comuni di Canda, Salvaterra, Crocetta e Villabona, ora frazioni del Comune di Badia Polesine. Pochi anni dopo, come un'onda inesorabile, arrivarono la fillossera e le alluvioni a cancellarne quasi ogni traccia.
L'oblio sembrava definitivo, ma la terra, come gli uomini, ha una memoria lunga. La rinascita del mattarella ha il volto e le mani di Vittorio Comini, frutticoltore a Giacciano con Baruchella.
Negli anni '90, mentre altri abbandonavano, lui ha scelto di andare in direzione contraria: non solo vignaiolo, ma archeologo della sua stessa agricoltura. Con una tenacia che sa di argine e di radice, ha custodito i pochi, preziosi filari sopravvissuti, diventando il custode di un patrimonio genetico sull'orlo dell'estinzione. Questo suo sogno solitario è diventato poi una missione collettiva con la nascita dell'Associazione dei Vini Storici Polesani, una confraternita di appassionati che ha ottenuto nel 2021 l'iscrizione ufficiale del mattarella nel Catalogo Nazionale delle Varietà di Vite.
Da questo lungo lavoro di recupero, da questa fede incrollabile, è nato un vino che è un manifesto, un messaggio liquido in una bottiglia: Vangadicia 961.
La data “961” fa riferimento a una pergamena rinvenuta nell’archivio del monastero, in cui viene nominato esplicitamente il termine “Vangadicia” e si menziona per la prima volta un abate. Il nome stesso è quindi un giuramento di fedeltà a quelle origini millenarie, un omaggio diretto all'Abbazia che per prima coltivò quest'uva.
È il culmine di un percorso, il sogno che si fa materia. Presentato ufficialmente come l'ambasciatore del Polesine, questo vino è la prova che la tenacia può trasformare un'uva dimenticata nel simbolo di un intero territorio.
Il Vangadicia 961 non è più semplicemente un vino frizzante, ma si è evoluto in qualcosa di più complesso e nobile, capace di raccontare in un calice la storia, la terra e le mani di chi l'ha reso possibile.
Un calice che racconta una storia precisa. Il colore è un giallo paglierino brillante, attraversato da un perlage fine e persistente. Al naso, accanto ai sentori freschi di mela verde, pera, agrumi e fiori bianchi, emerge un balsamico vegetale che apre il balcone a un panorama gustativo composto da un'acidità vibrante, figlia di questa terra. È una danza con la sapidità elegante, che finisce poi per chiudere con quel ricordo di agrumi.
Assaggiare oggi un calice di Vangadicia 961 è un atto di partecipazione. È sentire nella sua freschezza la brezza che spira dagli argini del Po e nella sua struttura la tenacia di uomini come Vittorio Comini o Giovanni Succi.
È la dimostrazione che il futuro, a volte, non è che il recupero del migliore dei passati.
In un mondo che insegue l'omologazione, questo vino è una bandiera di unicità, un messaggio che parte dal cuore del Polesine per dire al mondo che anche una terra di fiumi e nebbia può generare un vino capace di raccontare, con orgoglio, la sua storia millenaria.





