La mia tre giorni nelle Langhe inizia nel cuore della notte da un aeroporto a mille chilometri da quello di Caselle, dove arrivo quando il sole è appena spuntato dall’orizzonte. Un’auto a noleggio e via sulla Torino-Savona che lascio all’altezza di Cherasco. Il panorama inizia a cambiare, le sensazioni cominciano a tramutarsi in emozioni quando si attraversa il Tanaro per la prima volta. Ma è quando scorgo i primi cartelli che indicano Barolo, La Morra o Novello che sento che è tutto vero. Fino all’ennesima curva in salita che sembra come tutte le altre. Ma una volta scollinato, eccolo lì quel panorama: non lo hai mai visto ma sai che è lui. Distese e distese di vigne perfette nei loro perimetri, aggraziate nel loro saliscendi su quelle dolci colline entrate nel mito.
La prima volta che vedi le Langhe non lo dimentichi mai. Nel mio caso è stato proprio a Barolo.
Dove però mi fermo giusto il tempo per una foto. Il programma è ricco e il primo appuntamento è già vicino, non voglio tardare. Prendo la strada per Castiglione Falletto, il navigatore mi dice 10 minuti. A destra e a sinistra mi scorrono nomi finora letti sui libri o in siti di shopping online: Damilano, Borgogno, Luciano Sandrone. La mia prima tappa è in casa di uno degli uomini che hanno rivoluzionato il Barolo. È da Paolo Scavino, azienda fondata poco più di cento anni fa da Lorenzo Scavino, che l’ha intitolata a suo figlio il quale a sua volta l’ha passata a Enrico Scavino, uno dei “Barolo Boys”, la generazione che a inizi anni ’80 fece innamorare gli americani di questo vino. Oggi la guidano le figlie Enrica ed Elisa, perché in un triste 25 febbraio 2024 Enrico è venuto a mancare. «A quasi 83 anni e con 72 vendemmie sulle spalle», come mi dice Roberto, il responsabile commerciale che mi guiderà nella visita all’azienda e nella successiva degustazione dei loro vini.
Trenta ettari totali in 8 degli 11 Comuni della denominazione. Una produzione dedicata per poco più del 60 per cento al nebbiolo. Uve che vengono lavorate in locali scavati fino a 15 metri sotto la collina. Due le aree distinte: in una le botti grandi di legno francese e lussemburghese dove i Barolo trascorrono 20 mesi; nell’altra transitano le bottiglie in cui i vini affinano prima di essere immessi sul mercato. Il tutto impreziosito da una terza area dedicata alla collezione storica con bottiglie (circa 75.000) che partono dagli anni ’60.
Nove i vini in degustazione. Un’emozione dietro l’altra.
A cominciare dal Langhe DOC Sorriso 2024, un bianco di grande tensione minerale da chardonnay, sauvignon blanc e viogner che nasce dalla passione di Enrico Scavino per i grandi bianchi francesi. Via poi alla batteria dei rossi. Barbera d’Alba DOC Affinato in Carati, da una vigna di 70 anni a Roddi da cui si producono solo 5000 bottiglie dopo 10 mesi trascorsi in caratelli. Il nebbiolo esordisce con il Langhe Nebbiolo 2023, vino ideato per avvicinare gli appassionati al mondo del Barolo: meno potenza e tannino, più fragranza e finezza. Ed eccolo “il re dei vini, il vino dei re”. Ben sei le etichette (tutte annata 2021) tra le quali cercare analogie e differenze, sfumature e particolarità. Il Barolo (grande annata come la 2016) segue la vecchia tradizione di assemblare più vigneti, in questo caso 7, tutti cru, tra Barolo, Castiglione e Serralunga. Aromatico e fine, potente e lunghissimo. Il Bricco Ambrogio, di cui Scavino è stato il primo a farne un cru tra i soli 4-5 che lo producono, è il più “femminile”. Il Ravera con i suoi 430 metri è il più alto di tutti e la freschezza ne beneficia. Il Bussia Vigna Fantini, che esce quest’anno per la prima volta, è il coronamento del sogno di Enrico di avere un cru anche a Monforte. Il Prapò, di cui si producono solo 6000 bottiglie, viene dalle viti meno produttive e oggi, in qualsiasi vigna aziendale ci sia una pianta da sostituire, la si recupera dalla selezione di questo vigneto. Infine il Bric del Fiasc, concentrato di storia aziendale: vigneto impiantato nel 1921, quando Lorenzo Scavino divide l’azienda tra i figli. Due ettari e mezzo dei 7 dell’intero cru, in un’area in cui si fondono le due zone serravalliana e tortoniana. Sabbie eccezionali e una sorgente d’acqua ferrosa donano finezza e mineralità.
Lascio il cuore della denominazione, imbocco la provinciale che porta ad Alba in direzione nord-est, costeggio il Tanaro, supero la città dei tartufi ed entro in quel mondo che, erroneamente o per futile semplicità, qualcuno reputa ancora il fratello minore: Barbaresco. Ecco Albino Rocca, una di quelle realtà che hanno fatto grande questa terra, giustamente ricordate da pannelli informativi posti tutto attorno alla torre del castello della cittadina che dà il nome alla DOCG.
È una storia famigliare che è giunta alla quarta generazione (si profila la quinta…), iniziata con il trisnonno degli attuali proprietari che a fine ‘800 collaborava con Domizio Cavazza, “padre” del Barbaresco. Mi accoglie Paola, nipote di Albino e figlia di Angelo, scomparso tragicamente assieme alla moglie in un incidente aereo nel 2012. Con passione e, a tratti, commozione, mi racconta dei venti ettari totali tra Neive e Barbaresco (dal 2016 si produce anche nel Roero), per 16 etichette e 100.000 bottiglie, un quarto delle quali di bianchi.
Una meravigliosa terrazza panoramica sui cru Ronchi e Ottà, una splendida area sotterranea dove le bottiglie riposano e la storia è raccontata dalle immagini.
Assaggio un Piemonte Cortese DOC, più unico che raro. Letteralmente. Albino Rocca è infatti l’unica azienda a Barbaresco a produrre un bianco da questo vitigno che ha il suo centro di elezione a Gavi, in provincia di Alessandria. Strutturato (8-10 mesi di legno), ottima intensità e incisiva sapidità. Si prosegue con il Dolcetto D’Alba 2024 e poi con la freschezza fruttata dal Barbera d’Alba Superiore Gepin 2022 da vigne di 70 anni. Per arrivare alla batteria dei Barbaresco: a cominciare dal Ronchi (annate ’21 e ’22), il cru sulla cui sommità si affaccia l’azienda che lo produce dagli anni ’60, per proseguire con il Montersino (’21, con Meruzzano è la MGA più a sud e più alta della denominazione, fino a 470 metri) e per finire con l’Angelo 2019. Dedicato al papà, è fatto con uve dal Ronchi per un 50 per cento e per il restante in parti uguali da Montersino e Ovello. Dal 2021 si produce anche una Riserva in sole 2000 bottiglie. Storia e amore per famiglia e terra concentrati nel calice.
Il primo giorno è anche il più intenso. Lascio Barbaresco e torno di nuovo a sud-ovest di Alba, stavolta però a La Morra, nel cuore dell’anfiteatro centrale che si estende anche ai territori di Barolo e Castiglione Falletto. In casa Oddero hanno deciso di inserire nel proprio nome l’anno di nascita (1878), a sottolineare le origini di una storia che parte da un documento di compravendita, oggi un vero cimelio, e che arriva ad essere una delle aziende più rappresentative del più grande dei Comuni langaroli. Qui nel 2010 è stata aperta una nuova struttura per lo stoccaggio, mentre le botti compiono il consueto processo che le vede utilizzate un paio d’anno con la barbera al fine di “ammorbidirle” prima di essere destinate al nebbiolo.
E a Oddero, dove mi accoglie per quella che, più che una degustazione, è una preziosissima lezione l’enologo aziendale Luca Veglio, di nebbiolo ce n’è tanto. Ma anche riesling, come il Langhe 2023 che fa 12 ore di macerazione per arricchirlo di struttura, o il Monlià 2023, da quel vitigno protagonista del momento che è il timorasso. Seduce la barbera nel Nizza 2022 per freschezza e frutta rossa in confettura, colpisce il Langhe Nebbiolo 2023 così come il Barbaresco Gallina 2022 con la sua fresca eleganza.
Assaggiare la lunga serie dei Barolo non è soltanto un affascinante gioco di scoperte, ma anche una viaggio tra i tanti territori della DOCG.
C’è il 2021 voluminoso, lungo e con tanta frutta scura. E poi ci sono tutti i cru: da un fragrante Capalot 2021 che nasce dall’idea di fare qualcosa mai fatto prima, ossia vinificare singolarmente le uve di Santa Maria dove ha sede l’azienda, al Villero 2021 che nonostante il caldo della conca di Castiglione Falletto porta con sé una bella freschezza assieme a tanta frutta e spezie. Dai grandi profumi del Bussia Vigna Mondoca 2019 Riserva all’emozionante mini verticale di Vignarionda: il voluminoso Riserva 2018, l’ematico 2013, il lento dischiudersi del 2010. Una memorabile conclusione di giornata.
Il percorso non finisce qui. Prosegui con: Barolo e Barbaresco, l’anima del nobile Piemonte