Piemonte | ITALIA

Barolo e Barbaresco, l’anima del nobile Piemonte

Tre giorni in tour per le Langhe, per scoprire come il vino può unire Storia e tradizione, fino a cambiare il destino di una terra che a metà del secolo scorso era ancora considerata povera.

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Barolo e Barbaresco, l’anima del nobile Piemonte

Tre giorni in tour per le Langhe, per scoprire come il vino può unire Storia e tradizione, fino a cambiare il destino di una terra che a metà del secolo scorso era ancora considerata povera.

Per una lettura completa, inizia da qui: Le Langhe, dove il tempo sembra essersi fermato

Non è ottobre, ma anche in primavera il risveglio nelle Langhe può regalare la magia delle nebbie mattutine. E sorprendere ugualmente benché siano appena accennate, soprattutto se la giornata precedente era stata caratterizzata da un caldo sole. In una sorta di ping pong tra le due anime della langa cuneese, il secondo giorno mi riporta a Barbaresco. La mia auto si inerpica lungo stradine tortuose costantemente circondate da vigne. Una di queste mi conduce nel cuore del cru Villagrande, a Treiso, dove la famiglia Grasso opera dal 1870, da quando Giuseppe Grasso, bisnonno dell’attuale titolare Giulio, si trasferisce dalla vicina Calosso in provincia di Asti. Mi accoglie e mi guida la figlia Paola. Con lei si respira una professionalità simpatica e mai seriosa. Specchio della genuinità di questa terra.

L’azienda è situata al centro di un leggero fondovalle. La struttura principale si chiama Cascina Cavalli, che offre lo spunto per la scelta del logo. Tutto attorno, inutile dirlo, vigne alternate da vigne. Due terzi delle quali a nebbiolo.

Storia che si respira dai racconti: da quando negli anni ’70 i vignaioli “valevano” meno degli operai Fiat e perciò erano gli ultimi a trovare moglie.

Fino all’attualità del riscaldamento globale che spinge a “tagliare” l’argilla così da permettere all’acqua di scendere più in profondità nel suolo. Caldo che inizia a sentirsi anche qui, tanto che nelle annate ’22 e ’23 si è deciso di non produrre Barbaresco Riserva.

Tengono però bene i vitigni che dell’acidità hanno il marchio. Come il riesling renano, da cui si produce un Langhe Frè 2023 dalle ricche note citrine, bianco aziendale assieme al Langhe Chardonnay Valentine che invece si arricchisce con il passaggio in legno. La linea degli “altri” rossi è rappresentata dal Dolcetto d’Alba Lodoli e dalla Barbera d’Alba Paolina. Perché qui il grande protagonista non può che essere il nebbiolo, che esordisce con il Langhe BricdelBaio e poi mette in luce tutte le sue sfumature nella linea dei Barbaresco: dalla longevità e storicità dell’Asili all’ormai rara presenza del clone michèt utilizzato nel Villagrande, che esprime ulteriore complessità nella versione Riserva che “esce” a 5 anni dalla vendemmia. Per concludere con tutta la piacevolezza del Moscato d’Asti 101 da doppia vendemmia: la prima tira fuori l’acidità, la seconda la dolcezza.

È proprio lui, il vitigno aromatico per eccellenza, che mi porta a sconfinare nel Monferrato, zona d’elezione del moscato che nella DOCG Asti nel 2022 ha sfondato il muro 100: quello dei milioni di bottiglie vendute. Mi reco a Castagnole delle Lanze, da Gianni Doglia. Terza generazione di una azienda fondata da suo nonno nel 1947, quando questa terra profondamente segnata dalla Seconda Guerra Mondiale iniziava a rialzarsi. Gianni la guida dal 1995, anno in cui apporta due grandi novità: imbottiglia tutto e soprattutto imbottiglia il Moscato d’Asti. Ne vengono fuori le due chicche aziendali: il Moscato d’Asti La Giostra e il Canelli Casa Bianca.

Due vini didascalici: se lavorato con l’obiettivo della qualità, il moscato regala emozioni indimenticabili.

Inconfondibile aromaticità, stuzzicante frizzantezza, rinfrescante acidità, golosa dolcezza. Il tutto in un equilibrio sopraffino. Fuori dalle Langhe, oltre la barbera (due etichette in versione d’Asti DOC e Nizza DOCG, due sorprese in cui la proverbiale acidità del vitigno regala un equilibrio perfetto con la struttura) si incontrano anche gli altri due rossi della zona. Il primo è il grignolino, il vitigno dai tanti soprannomi. Due in particolare: nobile ribelle, perché vino dei Savoia e perché di difficile lavorazione a causa dei tannini anarchici; il rosso con struttura da bianco, perché comunque disegna grande eleganza. E poi il ruchè e la sua capacità di dare profumi “dolci” ma dalla bocca secca, caratteristiche che ne fanno un “rosso per chi non ama i rossi”.

In un luogo pregno di tradizioni come le Langhe non manca la Storia. Quella con la maiuscola. Decido infatti di tenermi l’ultimo giorno per andare a visitare il Castello di Grinzane Cavour, nell’omonimo comune nell’estremo nord-est della denominazione Barolo. Uno dei castelli meglio conservati del Piemonte che deve il nome a uno dei padri nell’Italia unita: Camillo Benso Conte di Cavour, che dell’allora Grinzane fu sindaco dal 1832 al 1849 e che, una generazione dopo quella di Giulia Falletti di Barolo, ebbe un ruolo altrettanto fondamentale nell’introdurre nuove tecniche di lavorazione che nella prima metà dell’800 fecero del Barolo il vino che è oggi.

Il Castello non è soltanto storia architettonica e artistica, ma anche enologica.

È infatti circondato da pannelli che illustrano l’epopea di Cavour e del Barolo, che raccontano le caratteristiche del nebbiolo e della geologia del luogo, che insegnano tutte le pratiche di cantina e vigna. E poi la vite. La struttura è infatti circondata dalla “Vigna del Conte”, da cui si produce Vigna Castello, una delle 8 Menzioni Geografiche Aggiuntive di Grinzane Cavour, gestita dall’istituto superiore “Umberto I” di Alba.

È tempo di ripartire, di rimettere insieme le idee, i racconti, le parole e le immagini. Non prima, però, di aver approfondito la realtà dove ho alloggiato, la mia base di partenza per i miei tour su e giù per le Langhe. Sto parlando di Guido Porro, azienda famigliare alla terza generazione. Siamo a Serralunga d’Alba, a poche decine di metri dalla torre del castello che ti sembra di poter toccare allungando il braccio e sulla sommità del cru Lazzarito, di cui Guido mi fa assaggiare il Vigna Lazzairasco 2020 da viti di 65 anni (potente ma elegante) e il Vigna Santa Caterina 2020 (frutta scura, rotondo, “femminile”). Degustazione che si era aperta con un Langhe Nebbiolo 2023 dal tannino elegante e che si chiude con uno di quei cru che quando senti nominare ti chiedi se stia accadendo davvero: il Vignarionda 2020 con tutta la sua personalità e il suo carico di racconti.

Emozioni nel calice ma anche in cantina, quando incontro una botte vecchia di 40 anni.

Il lento consumo avvenuto nei decenni all’interno è tradito all’esterno dai solchi rossi del vino venuto fuori dalle micro fessure allargatesi nel corso degli anni. Rifletti sul fatto che la prima volta che è stata usata era il 1985, anno in cui al cinema usciva “Ritorno al Futuro”. Ha visto alternarsi proprietari, ha visto nascere e finire mode, ha visto l’evolversi del mondo del vino passato dalla domanda “bianco o rosso?” alle recensioni dei wine influencer. Quel che in tutto questo tempo non è cambiato – e per fortuna! - sono stati quel mix di atmosfera contadina e paesaggi di struggente bellezza che si chiamano Langhe.

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