C’è un fuoco che non si è mai spento, a Crispiano, terra delle cento masserie. È quello che arde nel cuore e nel forno di Martino Marsella, classe 1942, ultimo testimone di una tradizione antica: il fornello pronto, rito popolare e gastronomico che ha trasformato le macellerie pugliesi in piccole bracerie di paese.
Tutto comincia alla fine degli anni ‘50, quando un giovanissimo Martino — non ancora diciottenne — rileva una piccola macelleria nel centro di Crispiano. «Non potevo nemmeno intestarmi la licenza», racconta con orgoglio, «ma il mestiere era di famiglia: mia madre era figlia di macellai, mio fratello Pasqualino mi ha insegnato tutto». La sua storia è quella di una generazione che ha imparato il lavoro con le mani, il sudore e la brace.
In un’epoca in cui le macellerie erano luoghi di comunità, Martino trasforma quel piccolo laboratorio in un punto di riferimento per il paese.
Dalla bottega nasce, poco per volta, il fornello pronto: un forno in muratura, rivestito di mattoni refrattari, a cupola tonda, costruito per trattenere il calore e arrostire la carne “alla buona”, come si faceva una volta. Le carni — agnello, fegatini, salsiccia, bombette — vengono infilate in lunghi spiedi verticali, posti di lato o di fronte alla brace viva. Il grasso cola lentamente, senza mai toccare il carbone, e il profumo invade la stanza come una promessa antica.
«Il fornello respira», spiega Marsella, «si accende con un po’ di grasso, una carta e il carbone buono, quello di una volta, cotto nella Murgia. Con lo sportello si regola la fiamma: lo chiudi e si calma, lo apri e riprende vita». È una forma di cucina che richiede esperienza, occhio e rispetto per il tempo: «Non c’è termometro che tenga, il punto di cottura lo vedi dal colore della carne».
Negli anni ‘70 e ‘80, mentre molti colleghi chiudono o si modernizzano, Martino resiste. Da semplice macelleria con asporto, il suo locale si evolve in ristorante: La Cuccagna.
«Erano una quarantina di coperti all’inizio», ricorda, «ora ne abbiamo ottanta. Ma il fornello è sempre lo stesso». La Cuccagna — il nome lo sceglie il figlio Gianni, allora studente a Bari — nasce come una dichiarazione d’amore per l’abbondanza e la convivialità: “Quando arrivava dagli amici dell’università con i pacchi pieni di carne e dolci di casa, i suoi amici dicevano: ‘è arrivata la cuccagna!’”.
Con il tempo, al ristorante si affianca l’enoteca Giro di Vite, aperta nel 2001, frutto della nuova generazione. Il nome, spiega Paola, moglie di Gianni, «rappresenta il tralcio dell’uva ma anche un passaggio di vita, il nostro “giro di vite” come coppia e come impresa». È la prova che la tradizione può rinnovarsi senza perdere la sua anima.
Oggi, mentre molti fornelli pronti della Valle d’Itria e del Tarantino sono scomparsi, a Crispiano il fuoco della Cuccagna – Giro di Vite arde ancora. «Prima si consumavano quattro agnelli a settimana», racconta Martino, «oggi uno basta. Sono cambiati i gusti: ora i clienti chiedono più bistecche e tagliate, ma il fornello resta il cuore del locale».
Nonostante il tempo, la passione non è mai venuta meno. «Se mi fermo, mi perdo», confessa. E davvero non si è mai fermato. Da oltre sessant’anni continua ad accendere quel forno, a regolare la brace, a controllare ogni spiedo come un direttore d’orchestra.
La tradizione del fornello pronto, spiega una ricerca recente, è tipica della Puglia centrale, tra la Valle d’Itria e la Murgia tarantina.
È una pratica che unisce mestiere e socialità, nata nel dopoguerra e sopravvissuta grazie a uomini come il nostro Martino, custodi di un sapere che si tramanda per osservazione e dedizione.
Oggi, in un’epoca di cotture veloci e format globali, la lentezza del fornello pronto diventa quasi rivoluzionaria. A San Giorgio Ionico, Luigi Fabbiano, un giovane ristoratore ha deciso di recuperare la tradizione costruendo un nuovo fornello con l’aiuto di un vecchio mastro artigiano: segno che qualcosa si muove, che il profumo della brace continua a richiamare chi ama la verità della carne e la memoria dei luoghi.
«Nella mia vita ho sempre lavorato quasi venti ore al giorno», conclude Martino, «e spero che chi verrà dopo di me non dovrà fare gli stessi miei sacrifici. Il mestiere è bello, ma è duro. Però finché ci sarò io, il fuoco della Cuccagna continuerà ad ardere per i nostri clienti».
E mentre il fornello crepita piano, sembra davvero che quella fiamma, più che cuocere la carne, stia cuocendo il tempo — dorando la memoria di una Puglia che ancora sa di brace, di casa e di cuore.






