GIAPPONE

Nihonshu, l’anima del vero sakè giapponese tra riti antichi e nuovi sapori

Dalle radici spirituali del riso fermentato alle nuove frontiere gastronomiche, la bevanda nipponica per antonomasia svela un Giappone liquido ricco di storia, identità e abbinamenti sorprendenti. Fino al pioneristico Kushikoma, il primo izakaya di Tokyo a servirlo non pastorizzato

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Nihonshu, l’anima del vero sakè giapponese tra riti antichi e nuovi sapori

Dalle radici spirituali del riso fermentato alle nuove frontiere gastronomiche, la bevanda nipponica per antonomasia svela un Giappone liquido ricco di storia, identità e abbinamenti sorprendenti. Fino al pioneristico Kushikoma, il primo izakaya di Tokyo a servirlo non pastorizzato

In Italia, quando parliamo di “sakè”, pensiamo per lo più a quella bevanda alcolica a base di riso che è abitudine incontrare nei ristoranti di cucina asiatica. C’è chi ne apprezza il gusto e chi, più semplicemente, lo ordina perché desidera accompagnare l’esperienza culinaria con un sapore insolito. A rendere il tutto ancora più “esotico” contribuisce spesso il fatto che il sakè venga talvolta servito caldo, un’usanza piuttosto lontana dalla nostra abitudine di consumare bevande alcoliche a temperature più fresche.

Molti sanno che la parola “sakè” è giapponese, ma non è sempre chiaro se la bottiglia proposta al ristorante provenga davvero dal Giappone o da altri Paesi. Bevande fermentate a base di riso si producono infatti in diverse zone dell’Asia, e persino in alcuni Paesi occidentali. È ancora molto raro che nei menù dei ristoranti sia specificato l’esatto nome della bevanda che verrà servita: perlopiù, si trova scritto genericamente “sakè” senza alcuna specifica.

Un giapponese potrebbe a ragione restare colpito leggendo questa voce su un menù. In giapponese, infatti, “sakè” non indica solo l’alcol di riso: “sakè” significa in generale “alcol”, in tutte le sue forme. In pratica, per un giapponese, birra, vino o qualsiasi altra bevanda alcolica sono sempre “sakè”. Cosa penseremmo se, in un ristorante occidentale in Asia, invece di una appropriata carta dei vini con nomi e caratteristiche delle varie bottiglie, trovassimo un’unica e generica dicitura “alcol” a intendere un imprecisato vino rosso?

In giapponese, la parola “sakè” si scrive con il carattere 酒 formato da due componenti: 氵(la versione semplificata dell’ideogramma di acqua, 水) e 酉 (ideogramma che rappresenta un recipiente anticamente utilizzato in Cina per la preparazione e la conservazione delle bevande alcoliche). L’insieme di questi due elementi compone l’ideogramma 酒 che rimanda proprio al concetto di liquido fermentato in un apposito recipiente.

Mentre il carattere 酒 è condiviso da tutte le lingue che usano la scrittura ideografica cinese, la parola “sakè” per leggere questo carattere è propria della lingua giapponese. Esistono varie teorie sull’origine di questa parola. Secondo la spiegazione più comune, “sakè” deriva dal verbo “sakaeru” (栄える), che significa “fiorire/prosperare”, in riferimento alle sensazioni piacevoli indotte dall’alcol. Un’altra teoria la fa risalire al verbo “sakeru” (避ける), cioè “evitare”: un tempo si credeva che bere alcol servisse a prevenire malattie e allontanare spiriti maligni, compresi pensieri e sensazioni negative.

Quando si parla di “sakè” in Giappone, quindi, si intende un ventaglio di bevande molto ampio: liquori a base di frutta, come i deliziosi “umeshu”, cioè letteralmente “alcol” (shu, che è un altro modo di leggere il carattere 酒) di “prugna giapponese” (ume, 梅); distillati di orzo, patate dolci o riso, che rientrano nella categoria degli “shōchū” (焼酎, letteralmente “alcol forte cotto”); birre molto note e whisky di fama mondiale. Tra tutte queste bevande, ce n’è una che spicca in modo particolare nel mondo del “sakè” giapponese: il nihonshu (日本酒), ovvero “l’alcol (shu, 酒) del Giappone (nihon, 日本)”. È proprio il nihonshu a corrispondere a quello che in Occidente viene spesso chiamato “sakè” e che, in un certo senso, rappresenta proprio il “sakè giapponese” per antonomasia.

Classificare il nihonshu non è semplice. Con una gradazione di circa 15-16 gradi, si ottiene per fermentazione, ma il suo procedimento produttivo non è del tutto riconducibile né al vino né alla birra, collocandosi in una categoria intermedia. Il risultato è una bevanda dal sapore unico, che si distingue dai più comuni alcolici fermentati a cui siamo abituati. 

La storia del nihonshu è antichissima, risalente almeno all’inizio del Periodo Yayoi (intorno al V secolo a.C.), quando la coltivazione del riso si diffuse nelle isole giapponesi. Le prime tecniche di produzione prevedevano la masticazione del riso: l’enzima salivare amilasi trasforma l’amido in zucchero che poi, unito a lieviti naturali, avvia la fermentazione.

Dal Periodo Heian (794-1185) in poi, questo metodo venne gradualmente sostituito dall’uso del koji, un fungo filamentoso impiegato nella fermentazione di cereali come riso e soia. Si affermò così il processo di fermentazione parallela multipla, in cui la trasformazione dell’amido in zucchero e la fermentazione degli zuccheri avvengono contemporaneamente nello stesso contenitore. Questo differenzia il processo di produzione del nihonshu da quello della birra, dove queste due fasi avvengono in momenti differenti. Segue poi di solito la pastorizzazione a una temperatura di 60-65°C che permette di sterilizzare il liquido e allo stesso tempo disattivarne qualsiasi enzima per meglio preservarlo.

Nella produzione del nihonshu, la scelta del riso, la qualità dell’acqua, il tipo di contenitore, i tempi e le modalità di fermentazione e imbottigliamento influiscono molto sul prodotto finale, contribuendo a creare una galassia di sapori, aromi e retrogusti molto variegata.

Un tempo, il nihonshu era riservato a cerimonie religiose e alle élite politiche e intellettuali, ma già dal periodo Kamakura (1185-1333) la bevanda cominciò a diffondersi su larga scala. Migliaia di produttori sorsero in tutto il Giappone, ognuno impegnato a perfezionare la propria variante, dando vita a una cultura alcolica incredibilmente ricca.

Come in molte culture, anche in Giappone l’alcol era considerato un mezzo per avvicinarsi alla dimensione divina e allontanare spiriti maligni. Anche in virtù del suo essere basato sul riso, alimento base dell’agricoltura nipponica, il nihonshu emerse al centro della tradizione alcolica del Paese. 

Sin da tempi antichi, era abitudine offrire nihonshu alle divinità per propiziare un buon raccolto e protezione. Allo stesso modo, si beveva nihonshu in occasioni particolarmente importanti, come il Capodanno. Spesso, poi, nei racconti epici e nella tradizione orale giapponese il nihonshu veniva grandemente celebrato come una preziosa risorsa che permetteva agli eroi di sconfiggere mostri e nemici.

Grazie anche alla sua capacità di rallegrare gli animi e mitigare i contrasti, il nihonshu si affermò progressivamente come “bevanda dei legami e della riconciliazione”. Sin dai periodi di guerre e lotte tra i vari clan che costellano la storia antica e medievale giapponese, accordi e alleanze venivano sanciti proprio bevendolo insieme. Ancora oggi, in Giappone, sorseggiare nihonshu in comune è un rito che suggella amicizie, trattative d’affari e perfino unioni matrimoniali.

Il nihonshu si è sempre gustato sia freddo sia caldo, a seconda delle preferenze o delle stagioni: tutt’oggi, nei mesi più freddi si tende a servirlo caldo, mentre in estate è più comune berlo freddo. Anche l’abbinamento con il cibo ha tradizionalmente accompagnato la cultura del nihonshu. Spuntini salati, miso e vari piatti di pesce erano già popolari nell’antichità. Nel periodo medievale, poi, prese forma il cosiddetto “shiki sankon” (式三献) o “rito delle tre portate”, in cui tre giri di nihonshu venivano accompagnati da tre pasti specifici, che miravano ad esaltare il gusto della bevanda e creare armonia di sapori. All’inizio, queste pietanze si basavano soprattutto su ingredienti di mare: abalone, castagne, meduse, prugne sottaceto e simili come prima portata, seguiti da due successivi piatti a base di pesce pregiato. La seconda portata era normalmente sashimi, mentre la terza prevedeva pesce in cottura particolare.

Durante il periodo Muromachi (1336-1573), grazie all’influenza del Buddismo Zen e all’ampliarsi degli scambi commerciali, la cucina giapponese divenne ancora più varia. Si introdussero carni di cigni, oche, fagiani e conigli, mentre nuovi tipi di pesce, tra cui gamberi, orate e merluzzi, arricchirono ulteriormente le possibilità di abbinamento con il nihonshu, rendendo l’esperienza gastronomica ancora più complessa e ricca di sfumature.

In un mondo sempre più globalizzato, la cucina giapponese accoglie nuove tradizioni e sapori, mentre la produzione del nihonshu evolve e si perfeziona. Questo scenario offre opportunità sempre più interessanti: sperimentare abbinamenti originali che accostano ricette innovative o di diversa provenienza al vasto e dinamico panorama dell’alcol di riso. 

A Tokyo, nel quartiere di Kitaotsuka, esiste da trent’anni un luogo speciale che si dedica con passione proprio a questa missione: il Kushikoma. Sulla vetrina, una scritta in giapponese – che in italiano suona come “Ma quanto è buono il nihonshu!” – ne esprime perfettamente lo spirito.

Fondato da Tadashi Obayashi nel 1980, all’inizio il Kushikoma era uno dei tanti “izakaya” – locali dove si servono alcolici e cibo con posti a sedere, a differenza dei “tachinomiya”, dove si beve in piedi – specializzato in spiedini fritti e sashimi di carne. Col tempo, però, Tadashi e sua moglie Yukie decisero di esplorare sempre di più il mondo del nihonshu, sperimentando combinazioni inedite fra l’alcol di riso e i piatti proposti.

Negli anni ’90, i coniugi Obayashi si dedicarono a un’intensa ricerca: viaggiarono per il Giappone in cerca di produttori grandi e piccoli, scoprendo prodotti particolari da proporre ai clienti e raccontando storia e caratteristiche con passione. Questa dedizione attirò rapidamente un nucleo di appassionati, trasformando il Kushikoma in un punto di ritrovo per gli amanti del nihonshu.

Verso la fine degli anni ’90, la costanza degli Obayashi li portò a imbattersi in un nihonshu eccezionale e allora poco conosciuto: il Juyondai, servito non pastorizzato. Tadashi ne fu così colpito da decidere di installare un apposito frigorifero professionale – un’attrezzatura all’epoca utilizzata solo dalle stesse aziende produttrici – per conservarlo al meglio e offrirlo regolarmente ai propri clienti. Fu una scelta pionieristica che fece del Kushikoma il primo izakaya di Tokyo a servire con continuità nihonshu non pastorizzato. La fama di questa scoperta crebbe rapidamente, e il Juyondai fu eletto uno dei migliori nihonshu del Giappone. Da quel momento, sia i nihonshu non pastorizzati sia il Kushikoma guadagnarono un prestigio sempre maggiore: il locale divenne un vero e proprio “tempio del nihonshu”, meta prediletta dagli esperti e dagli appassionati in cerca di nuovi sapori destinati a farsi notare sulla scena nazionale.

Ancora oggi, nonostante la scomparsa del signor Tadashi, il Kushikoma continua a stupire con sapori sempre nuovi. La signora Yukie porta avanti la passione del marito, introducendo versioni inedite di nihonshu, abbinandole a piatti pregiati e deliziosi, e offrendo spiegazioni puntuali ed entusiaste ai suoi avventori. Chissà quali altre perle si sveleranno in futuro a Tokyo, grazie all’instancabile lavoro del Kushikoma. E allora, non resta che andare a trovare la signora Obayashi, alzare insieme agli amici i piccoli calici in cui il nihonshu sprigiona tutto il suo fascino e brindare con la sonora formula giapponese: “kampai!”.