Platone, nei suoi “Dialoghi”, raccontava di un’isola prospera in mezzo all’Oceano Atlantico, di una società tecnologicamente avanzata e del suo desiderio di conquistare alcune parti del Mediterraneo. Quell’isola si chiamava Atlantide. Ma tutta questa storia non era che un mito.
E se vi dicessi che l’Atlantide non è affatto un mito? Mi permetterei soltanto di dissentire, senza troppi scrupoli, dalla descrizione lasciataci dal filosofo greco. Quest’estate ho avuto la fortuna di metterci piede.
La vera Atlantide sono le isole Azzorre. Parte del Portogallo, a più di 1300 chilometri dalla terraferma.
Non solo un’unica isola fiorente, come vuole il mito, ma nove isole rigogliose: dalla verde São Miguel, culla di un’agricoltura organica, alla nera e “post-apocalittica” Pico. Non una società bramosa di conquistare terre continentali, ma vini capaci di conquistare i cuori degli appassionati. Vini che, se solo non fossero così lontani, avrebbero già molti più “alleati” all’estero.
Come sono i vini delle Azzorre? Freschi, fantastici, con un equilibrio raro. Sono vulcanici e marini. No, sarebbe giusto chiamarli oceanici. Vulcanici e atlantici.
Tutte e nove le isole Azzorre sono di origine vulcanica. Qui convivono vulcani attivi e spenti.
Le isole furono scoperte nel XV secolo, quando la Chiesa portoghese favorì l’insediamento stabile della popolazione. In poco tempo divennero un punto strategico per marinai ed esploratori: qui fecero scalo James Cook e Cristoforo Colombo.
Quella spinta ai viaggi portò con sé un’altra spinta, più silenziosa ma profonda: lo sviluppo agricolo.
A São Miguel, dicono i locali, ogni lembo di terra era coltivato. I terreni fertili ospitavano orti, pascoli e frutteti. Un tempo le colonie britanniche esportavano arance in abbondanza. Oggi prosperano banane, frutto della passione, ananas e persino il tè – la più grande piantagione d’Europa si trova proprio qui. E la vite? Le sue origini azzorriane si perdono nel tempo: forse da Cipro, forse portata dai monaci francescani. La Chiesa voleva che tutte le isole fossero abitate. Pico, però, era ricoperta di pietre basaltiche e campi lavici.
Un suolo difficile, ma perfetto per la vite. Così Pico divenne “l’isola più vinicola” delle Azzorre, lasciando a São Miguel solo pochi vigneti.
Oggi i principali produttori si trovano a Pico, Terceira, Graciosa e São Miguel. I muri di basalto che circondano i vigneti sono la loro firma. In origine servivano a liberare i campi dalle pietre, ma finirono per creare un paesaggio unico, quasi simile ai clos francesi.
Quelle mura non sono solo belle: proteggono le viti dai venti, dall’acqua salmastra e dalle rapide variazioni climatiche. Assorbono il calore e lo restituiscono, mantenendo un microclima stabile, perfetto per maturazioni equilibrate.
Una delle cose che amo di più del Portogallo è l’attenzione ai vitigni autoctoni. Quelli nati qui, radicati nel territorio, capaci di regalarci sapori nuovi e di ricordarci che la diversità è la vera ricchezza del vino.
I protagonisti dei bianchi delle Azzorre sono tre: verdelho, arinto dos Açores e terrantez do Pico. Tutti accomunati da un’acidità vibrante, un basso grado alcolico e probabili legami genetici con il savagnin del Giura.
Attenzione però: il verdelho non va confuso con il verdejo spagnolo. Il primo regala vini intensi, fruttati e solari — come l’Anselmo Mendes Magma 2023, perfetto con il baccalà locale.
Arinto dos Açores, invece, è un vitigno indipendente dal “fratello” di terraferma. I vini che ne nascono ricordano il riesling: floreali, agrumati, tesi. Come l’Arinto dos Açores 2023 di Entre Pedras, affinato in grotte laviche e oggi simbolo di una nuova generazione di vignaioli naturali.
Terrantez do Pico, nonostante il nome, non ha nulla a che vedere con il torrontés argentino. Dona corpo e profondità ai blend, come negli Efusivo Branco 2023 o nei macerati di Quinta da Jardinete. L’abbinamento perfetto? Il “cozido”, piatto tradizionale di carne e verdure cotto lentamente.
Un vino che parla la lingua del fuoco, della pietra e del mare.








